Il lato oscuro della luna

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A 55 anni dallo sbarco dell’Apollo 11, la Luna continua a svelarsi nel suo lato oscuro agli scienziati ancora oggi impegnati nello studio del satellite naturale della Terra: per la prima volta, una ricerca internazionale ha identificato più di 20 strutture legate a crateri ora sepolti e diverse stratificazioni inclinate nella regolite, lo strato di materiale composto da polvere, roccia e detriti, che si trova sulla superficie della Luna ed è il risultato di millenni di impatti di meteoriti e di processi erosivi.
A coordinare il team di ricercatori è il gruppo di Geofisica Applicata del professore Michele Pipan del Dipartimento di Matematica, Informatica e Geoscienze dell’Università di Trieste.
Gli scienziati hanno interpretato le strutture geologiche a una profondità di oltre 30 metri dalla superficie lunare, analizzando i dati radar raccolti dalla missione cinese Chang’E-4 dal 2019, attraverso il primo rover atterrato sulla faccia nascosta della Luna, e integrandoli con misure da sensori remoti.
L’indagine ha interessato una parte del cratere Van Kármán, situato all’interno del South Pole-Aitken Basin, una zona inesplorata del satellite con un diametro di oltre 180 km ora al centro di nuove rivelazioni geologiche. Per la prima volta, nelle fasi di raccolta ed elaborazione dei dati, i ricercatori hanno utilizzato algoritmi di deep learning basati sull’intelligenza artificiale, che hanno permesso di esaminare i dati radar in modo molto più preciso e oggettivo rispetto al passato, scoprendo caratteristiche ed evoluzione del lato nascosto della superficie lunare e rivelando una complessità nella geometria della regolite sino ad oggi sconosciuta. La regolite della zona osservata, infatti, non ha uno spessore costante, contrariamente a quanto ipotizzato in precedenza, ma variabile tra i 5 e i 15 metri.
“Questi risultati dimostrano l’importanza delle analisi multidisciplinari, che non solo forniscono informazioni cruciali dal punto di vista scientifico, ma costituiscono anche l’imprescindibile punto di partenza per la valutazione di potenziali risorse del sottosuolo lunare e per la pianificazione di future missioni e basi lunari permanenti” spiega Michele Pipan, professore di Geofisica Applicata all’Università di Trieste.
La ricerca, pubblicata sulla rivista scientifica Icarus, ha coinvolto scienziati dell’Università di Trieste, dell’INAF – Istituto nazionale di astrofisica di Roma, della Purdue University (USA), dell’Accademia cinese delle Scienze e dell’Università di Zhejiang (Cina).
Nel gennaio 2024, lo stesso gruppo di ricerca ha corretto e validato i dati radar raccolti dalla missione, disponibili sul sito del Lunar and Planetary data release system del National Astronomical Observatory of China, e li ha resi disponibili alla comunità internazionale attraverso la pubblicazione sulla rivista Scientific Data
Attualmente, il gruppo di ricerca dell’Università di Trieste che ha guidato questo studio è coinvolto in un progetto selezionato dall’Agenzia Spaziale Europea (ESA) per l’invio sulla Luna di un magnetometro e di un sistema radar per indagini geofisiche del sottosuolo lunare.

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